Feeds:
Articoli
Commenti

Dopo tre anni, ho pubblicamente rinunciato agli studi. In parte per motivi personali, e quasi interamente per quella che potrei definire solo come la fine di una storia d’amore. Di quelle grandiose, che ti tolgono il respiro e ti spingono a fare pazzie: studiare fino alle quattro del mattino senza sentire la stanchezza, aggiungere libri al programma di propria iniziativa, farsi prendere da un argomento al punto da stressare tutti quelli che hanno la pazienza di ascoltarti perché leggano quel saggio o quell’articolo. Snobbare sdegnosamente i romanzi, a meno che non siano inerenti al tema che si sta studiando. Saltare i pasti per seguire tutte le lezioni. E farlo volentieri, tutto per amore.

Poi le cose iniziano lentamente a cambiare. I corsi sono sempre interessanti, certo, la passione è intatta. Ma inizi a pensare sempre più spesso alle delusioni. Un esame andato male dopo due mesi di studio. Le promesse infrante, le discussioni senza motivo, le assenze ingiustificate. Ti scopri a tradirla con romanzetti fantasy di dubbio gusto per il solo motivo che non vuoi pensarci. Ti accanisci sui libri consapevole che devi leggere due, tre, quattro volte la stessa riga e che comunque non ti rimane nulla dentro. Ti senti vuoto. E alla fine ti rendi conto con orrore che non sei più la persona di prima: non hai voglia di uscire, non hai voglia di parlare con la gente, non hai idee, ti viene la nausea a guardare lo scaffale pieno di libri di testo. Sei deluso e amareggiato e sai, senza ombra di dubbio, di essere diventato una persona peggiore di quella che eri. E non ce la fai più a sopportarlo.

Se tornassi indietro, mi iscriverei nuovamente all’Università: per le persone che ho incontrato e per le cose che ho imparato. Ma c’è qualcosa di marcio in un sistema che ti spinge ad accumulare CFU invece di preoccuparsi se hai capito l’argomento e se ci hai ragionato. Io non sono capace di studiare così, ci ho provato una volta sola e non sono più riuscita a uscirne. Ma il fallimento non è solo mio, ed è il motivo per cui ho scritto questo post. Se state studiando a pappagallo per la media e per i crediti, state disonorando quello che dovrebbe essere un approccio sano allo studio e alla cultura. E non importa che a differenza di me ci stiate riuscendo; non ha alcun valore. E non importa che è esattamente questo quello che vogliono da voi: sono loro in errore.

Buona fortuna.

La via per Topo(f)love

Questo slideshow richiede JavaScript.

C’è un piccolo villaggio abbandonato nel Canal di Cuna, un lembo verde che serpeggia la Val Tramontina, che si chiama San Vincenzo. C’è una chiesetta, restaurata dal C.A.I., e qualche casa diroccata. Sul fianco della chiesa dedicata al Santo, dove i ghiri hanno trovato una calda alcova, c’è una targa che porta questa iscrizione: ” San Vincenzo in canal di Cuna,visse di vita, vive di storia “.

Ed è dove si ferma il racconto di San Vincenzo che inizia il capitolo più bello per Topolò, una frazione di Grimacco (UD), che aveva conosciuto la stessa fine del villaggio della Val di Cuna, consegnato alla storia come insediamento umano e ora museo a cielo aperto, in attesa che il vento e le piogge lo consumino. Ma a volte la storia, con la sua predestinazione, s’innerva nello spirito di un popolo e cambia strada. E’ proprio questo che colpisce di Topolò, la sua natura stratificata, quasi a leggerne geologicamente i cambiamenti. Abbarbicato sul crinale di una collina, domina una vallata di dolci pendii, come solo il Natisone sa regalare. Per la precisione di un suo affluente, il Còsizza, i cui meandri sgomitano nella vallata che porta il suo nome. La tenace caparbietà umana di volersi insediare in questo rigoglioso e selvaggio angolo di verde, s’integra perfettamente con l’amenità quasi impudente della natura, quando il manto di case di apre allo sguardo all’ultimo tornante (senza guard rail, occhio). Il faticoso incedere lungo le calli di sassi ci ricorda quanto dura dev’essere stata la nascita, quanto la rinascita. E il sommarsi di queste esperienze di vita trasformano un piccolo borgo, in una metropoli dell’anima, dove il senso di deja vù si mescola ad una sensazione di straniamento, di confusione. Le case crescono disordinate come gramigna, si buttano l’una sull’altra, si gettano a capofitto nel vuoto, restano sospese, pesanti come la vecchiaia, come i covoni, come il sudore. Ci viene concessa una grazia un po’ grossolana nel perderci tra l’intrico di mura, tra i vari piani di un purgatorio quanto mai apotropaico.

Ma ciò che l’architettura non svela di per sé, ci viene rivelata dalla vitalità. La luce sembra fuoco a Topolò, una flebile fiamma che anima l’oscurità più nera a valle, a cui viene concessa la grazia di essere baciata da una luna d’arint. Topolò esiste ancora perché non è più un luogo, ma una bolla di vita, d’umanità. Una inclusività portatrice di un messaggio aperto potenzialmente a tutti, purché Maometto s’incammini verso la montagna. Ma ciò che colpisce della Stazione di Topolò-Postaja Topolove, è la discrezione con cui ti lascia elaborare la scoperta. L’arte si rivela in punta di piedi; non a caso la ricerca dei luoghi d’incontro è lasciata alla curiosità del visitatore. La vista, sollecitata, rallegrata e liberata dai fardelli cittadini, non vi sarà di grande aiuto: è tutto nascosto a Topolò. Dovrete affidarvi agli altri sensi restanti per scoprire i segreti celati. Dai giardini che si aprono sulla vallata, ai cevapcici (con Ajvar) più gustosi del comprensorio, fino al chill out, con musica on air 24 su 24. Il cinema all’aperto è, ovviamente, il cuore pulsante dell’evento: non aspettatevi fuochi d’artificio, perché è tutto molto più intimo. L’avantgarde più pura si mescola ad un’arte più suggerita quasi spirituale, adatta ad un pubblico ridotto, che avrà, per una volta, il tempo di elaborare senza essere costantemente sollecitato sensorialmente. Lettura e teatro, la ricerca della strutturazione del suono attraverso la sua destrutturazione in unità minime, lo sperimentalismo visivo-ossessivo che sazia anche l’animo nero, è tutto contenuto in questa cassetta con le decorazioni natalizie che sceglie se stessa per imbellettarsi. Perché Topolove sarebbe solo un luogo, per quanto suggestivo, senza la stazione.

Valutare il confine tra arte-spiritualità e dilettantismo non è sempre facile, ma credo sia tra le intenzioni dell’organizzazione non voler dare una direzione artistica concreta, ma sfumare i limiti nell’indeterminatezza. Si, insomma, gli Sgarbi non sarebbero nelle coordinate artistiche di Topolò, per quanto non ci siano sfuggite alcune personalità che contano davvero (radio 2, la migliore radio d’Italia, ad esempio). Questa schiva autonomia non è forse voluta. E ci perdoneranno il sarcasmo se di fronte ad una realtà così soggettiva e disponibile negli intenti, il fiero autonomismo, nonché un radicato senso della proprietà un po’ montanaro, stridano con i proclami d’accoglienza ed ospitalità. La nostra tenda era posta sul giardino della chiesa, l’ultimo edificio sulla sommità della collina, faticosamente lontano dagli eventi, per quanto a due passi dalla rumorosa piazzetta, centro culinario della Postaja. Una zona di passaggio che non s’addice al riposo, come ci è stato maliziosamente suggerito dal plevant. C’è qualcuno che non vive benissimo la pacifica invasione dei giorni di Stazione, quasi a voler preservare ciò che c’è, ostinatamente ignorando che se c’è è merito di chi lo visita e ne tramanda la magia. Ma forse è anche questo Topolò, un paese imperfetto perché sedimentato, un po’ compromesso a causa della sua austera compostezza di confine. Non sarà infrequente incontrare qualche gerontocrate del luogo, consumato dalla solitudine e da un crudo delirio, che sbalordisce per realismo.
Chi viene a Topolò non viene per distruggere o rovinare, ma per animare. E ci sarà il dovuto tributo al silenzio, quanto è impossibile negare che l’ora tarda e il luogo si prestano al gozzoviglio e alla chiacchiera fino all’alba.

Perché scrivere di un evento appena terminato? Per due motivi essenziali: il primo è da ricercarsi nella totale assenza di informazioni e aspettative che, chi vi sta scrivendo, ha voluto mantenere nella sua prima volta. Il secondo è più emotivo: la postaja potrà lasciare qualcosa in voi soltanto se siete disposti ad accoglierla nella sua semplicità e nel suo garbo. E’ quindi una ricerca interiore, uno spunto, uno sguardo dissestato che possa mettervi in contatto diretto con l’Io quasi fanciullesca, proprio perché antico.
Il piacere di stare a Topolò si deve trasformare nel piacere d’essere Topolò. E’ questa l’accoglienza vagheggiata dalla Stazione, che però nasce in seno alla sensibilità di ognuno di noi che passa e, come spora, semina questa vaghezza come dono. Non parlate di Topolò, ma per Topolò; un’ esperienza interiore, una di quelle cose che lascia intatto l’incanto del silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Topolovo wiki
Stazione di Topolò
Stazione Facebook

photos by Sara B.

 

 

 

I lost my faith

Michael J. Sandel

Ho sempre pensato che accostare la parola filosofia al luogo sociale America fosse ossimoro, ma a quanto pare il prof. Michael J. Sandel non è dello stesso parere. Ordinario di filosofia politica e morale ad Harvard, ha tenuto dei corsi sul concetto di giustizia, applicato al contesto sociale americano. Le caratteristiche “nuove”, che hanno fatto la fortuna del personaggio, sono lo sfruttamento del dibattito aperto, in piena regola platonica, e l’aneddotica spiccia che porta il discorso filosofico su un piano sociale reale. A questi elementi deve ricondursi il successo (quasi) planetario del professor Sandel. Il suo esordio del corso “Justice”, ripreso dalle telecamere di una tv privata, è quantomeno classico:- Se aveste la possibilità di salvare cinque persone, uccidendone solo una, lo fareste? E perché? -. Niente di nuovo, quindi, ma il metodo misto e l’adattamento dei grandi temi sociali ad ogni tipo di pubblico, hanno trasformato Sandel nel nuovo guru della filosofia. Sebbene sia gnoseologicamente che ontologicamente non ci siano particolari novità, il merito di Sandel è d’aver aperto il metodo filosofico ai nuovi media, rendendo le tematiche accessibili, interattive e vitali.

Che questo metodo sia estensibile ad altre realtà filosofiche è tutto da verificare. In primo luogo perché l’America (ma anche l’oriente) è sempre stata incline a queste spettacolarizzazioni mediatiche. In secondo luogo perché il dibattito filosofico europeo è ad un altro livello di approfondimento e di tematiche. Credo che questa iniziativa, al di là dell’effettiva validità della proposta, meriti una certa considerazione. Innanzi allo stato comatoso in cui versa l’accesso alla filosofia e l’applicabilità della filosofia nel contesto sociale attuale (in Italia soprattutto), il merito di Sandel è aver ridestato l’interesse. Chissà se nella sua agenda programmatica il tentativo di rivitalizzare ciò che Stephen Hawkins ha definito “morto” o “in stato comatoso”, non parta da assunti solamente edonistici, ma azzardi un metodo per rendere fruibile il dibattito filosofico, applicandolo alla grande richiesta del popolo a vederci chiaro. Ritorna un tema caro alla filosofia pre-lumi, quello delle “idee chiare e distinte” che trovarono prima in Cartesio e poi in Locke i loro più tenaci (seppur opposti) postulatori. D’altra parte non si spiegherebbe altrimenti il successo planetario del suo corso di filosofia, né si spiegherebbe la necessità dei popoli asiatici ( tra i quali è nata una vera e propria Sandel-mania) di integrare il loro bagaglio filosofico già nutrito e diversificato da quello occidentale. Evidentemente non solo la globalizzazione comporta un nuovo assottigliamento e convergenza delle tematiche fondamentali dell’uomo, ma nel tragitto che ci ha portato a questo sistema-mondo s’è smarrito qualcosa. Ciò che è interessante notare nel corso di filosofia di Sandel è l’attiva partecipazione del’audience, sia quello presente in aula, sia il telespettatore (passatemi il termine) a casa che si sente appassionatamente coinvolto dalla dialettica sandeliana. Ripeto: chi cerca qualcosa di nuovo ha sbagliato porta, ma chi è in cerca di nuovi spunti e nuove metodologie pratiche potrebbe incontrare delle sorprese.

Era stata già abbozzata un’idea del genere nel nostro ateneo. Per la precisione il sottoscritto aveva lanciato l’idea di lezioni via webcam che potessero essere seguite sul sito dell’università o da casa. Ci è stato risposto che alcuni professori non avrebbero acconsentito all’operazione. Le motivazioni recondite non ci sono state fornite, ma le possiamo abbozzare lo stesso:
1) L’importanza della lezione in classe e la partecipazione ne verrebbe compromessa.
Vero, per certi versi. In un ateneo piccolo come quello di Udine, la possibilità di una archivistica sperimentale di questo tipo potrebbe portare gli studenti allo studio non partecipativo. Eppure le aule di Sandel sono gremite di studenti ed interessati. Senza contare che un tentativo non equivale ad un successo, ma se non altro accenderebbe l’interesse in più sfere di competenza.

2) Andrebbe rivisto il rapporto studente-professore e alcune dinamiche d’insegnamento dovrebbero necessariamente evolversi.
Anche questo in parte è vero. Però già oggi molti professori hanno adottato uno stile più colloquiale e aperto al confronto in aula. Bisognerebbe soltanto istituzionalizzarlo di modo da renderlo più fluido. La qual cosa si può ottenere sia a tavolino studiando una didattica specifica, oppure facendo pratica. Già alcuni professori fuori sede hanno adottato la videoconferenza per ovviare all’impossibilità dell’ubiquità. Quindi perché non renderlo pubblico ed istituzionale?

3) Non è adattabile a tutte le materie e a tutti i docenti.
D’accordo. Infatti nessuno chiede che venga esteso a tutti i corsi dell’ateneo di Udine, altrimenti l’effetto sorpresa ne verrebbe drasticamente compromesso. E credo che nessuno si scandalizzerebbe se non ci fosse una spettacolarizzazione stile talk-show come nei corsi di Sandel. Eppure, a parer mio, molti dei nostri professori avrebbero le qualità e le competenze per poterlo fare.

4) Mancano le risorse.
No. Quest’operazione ha costo zero.

5) L’approfondimento didattico verrebbe ridotto, semplificato, ridicolizzato.
Inevitabile quando si parla di accessibilità. Riferire Platone ed Aristotele a temi d’attualità grezza non è buon metodo, tanto quanto quello di partire dalla parole per definire la cosa. Ma credo che ogni studente sia tenuto sia in cuor suo, sia a causa del “programma d’esame” ad approfondire certi temi con l’ausilio dei testi e dei saggi. In fin dei conti per lo spettatore-studente non si tratta d’un esame di popolarità, ma di una tappa nel proprio percorso di studi.

Qui uno stralcio da You tube del corso di Michael Sandel intitolato “Justice”. Se vi appassiona cercate i video seguenti sulla banda dei suggerimenti di You tube. Troverete alcuni video anche nella sezione “Existenz” de “Lo Spaccio”.

Always thanks to Bill Hicks.

Chiunque possa vantare una cerchia di amicizie che superi i 1000, 1500 contatti Facebook dovrebbe essere bandito per legge dall’accesso a qualsiasi servizio di associazione e di condivisione virtuale. Chat erotiche e soft porno comprese. Troppo severo? Niente affatto. Perché a meno che voi di nome non facciate Renato Brunetta, la cui popolarità è facilmente giustificata dalla totale assenza di stile nello svolgere le proprie mansioni ministeriali, il cerchio si restringe e le possibilità che voi vi siate fatti una reputazione grazie al vostro spiccato talento per le public relations si riducono a poca cosa. Col rischio, per altro, che chi non vi conosca si faccia un’idea sbagliata sul vostro conto, apostrofandovi con epiteti e nomignoli di dubbia cortesia. Il vero problema? La possibilità che chi non vi conosca, nella stragrande maggioranza dei casi, c’abbia visto bene.

Si fa un gran parlare negli ultimi tempi delle fantomatica Spanish Revolution, degli indignados e di tutto quel movimento di giovani, di ragazzi e di ragazze, che sull’onda emotiva delle rivolte arabe si è prodigata alla bene e meglio per importare anche nel vecchio continente il focolare della rivolta. Convinti che di rivoluzione si potesse effettivamente parlare.

Non si può negare che gli spagnoli, almeno in un primo tempo, abbiano saputo essere convincenti. Perché sono stati bravi a farci credere che la loro fosse la risposta più adeguata al malgoverno dei paesi europei e perché forse, in minima parte, è anche grazie a loro se dalle ultime amministrative il governo Zapatero ne è uscito fortemente indebolito.

Sarebbe valsa la pena, però, di capire sin dall’inizio quanto la “rivoluzione” spagnola fosse distante anni luce dalle sommosse arabe, perché il rischio è che scelte come queste possano non soltanto rivelarsi inefficaci, ma dannose, distogliendo l’attenzione dei più giovani dall’unica, reale ed efficace comunicazione con i sistemi di potere che è quella dei partiti, della militanza e del voto.

Ciò che gli spagnoli non hanno tenuto in considerazione o hanno finto di non cogliere è che le rivolte arabe nascono da un bisogno concreto di partecipazione attiva a quella politica, comunemente intesa, declinata e legittimata dalle forme di adesione sopraelencate. In altre parole, si potrebbe dire che i giovani tunisini non hanno scelto di mobilitarsi col solo fine di gridare il proprio sdegno e la propria insofferenza ad un regime dittatoriale e men che meno con l’intenzione di congedarsi dalla politica dei partiti. Al contrario, il loro scopo era avere accesso ad una democrazia che potesse garantire la libertà di voto e delegasse il potere a chiunque avesse ottenuto la maggioranza dei consensi sulla base di elezioni perfettamente trasparenti. Attualmente, a distanza di pochi mesi, le coscienze politiche dei giovani tunisini sono tante, almeno 63, come i partiti che si presenteranno alle prime votazioni libere di fine luglio.

In questo senso, la distanza con l’indignazione spagnola è netta e incontrovertibile.

Ciò che si propongono gli indignati è di mettere in atto una democrazia partecipativa in cui i cittadini possano spendersi in prima persona nella vita politica. E detta così parrebbe quasi una figata. Quello che però non tutti hanno colto (e proprio in questo risiede l’incoerenza del movimento) è che la Spanish Revolution si prefigge di agire al di fuori della politica, al di fuori delle istituzioni, al di fuori dei partiti e delle associazioni, come se da una piazza compattamente neutrale e super partes si potessero determinare le sorti di una Nazione, si potessero avanzare proposte di legge o fosse anche solo possibile scorgere lo spiraglio di una transizione. Insomma, sì al cambiamento, ma lontano dalle istituzioni; sì alla politica, ma affrancandosi dai partiti; sì alla rivoluzione, ma sfuggendo gli ideali. Un manifesto programmatico di raro e confuso spessore qualunquistico.

Certo, gli indignati qualcosa da spartire con i giovani arabi ce l’hanno: anche loro sono riusciti ad organizzarsi in modo capillare ed efficace attraverso l’ausilio dei social network.

Ma forse non è sufficiente ad inneggiare alla stagione delle rivolte spagnole.

Gli amici de Bora.La hanno pubblicato un pezzo apparso su “Lo Spaccio della bestia trionfante”. Il titolo era Champions League. Ringraziamo i nostri colleghi alabardati ai quali lanciamo un ponte amicale contro i campanilismi ” fina a stessa” (cit.)

Qui il link diretto all’articolo: http://bora.la/2011/06/19/il-nuovo-stadio-delludinese-le-soluzioni-percorribili/

E qui il link alla webzine online. Andate a darci un’occhiata perché merita.

http://bora.la/

 

Happy Trails

Dio ascolta gli Slayer

In quel tempo J lavorava come drum tech per il tour degli Slayer. Si godeva il soundcheck dal retro palco e non capiva come dei testi così demenziali potessero piacere ai giovani. Come ogni forma di culto, per quanto profano, aveva assunto i contorni della commedia farsesca. Oppure erano solo forme nostalgiche di una pigrizia mentale.
Il lavoro di fatica l’aveva sempre rilassato, fin da quando suo padre lo costringeva a piallare pezzi di legno nella sua bottega. Per un certo periodo aveva persino provato a fare la rockstar, ma le lusinghe messianiche dell’avant-spettacolo gli erano venute a noia immediatamente e, dopo aver sciolto il gruppo, inscenò una classicissima overdose. Aveva sempre amato il retrogusto romantico della musica rock, per quanto stucchevole potesse sembrare dopo la morte di Kurt ed il circo massimo delle raccolte di b-sides e greatest hits. La morte è sempre un toccasana per le vendite. Pensate solo a quanto si riesce a lucrare sui gadget della croce a distanza di duemila anni. Aveva persino consigliato al bro Pio di scegliersi qualcosa di più commerciale che non le stimmate, ma Pio da quell’orecchio non ci sentiva. Allora provò nell’altro, ma Pio rispose con una scrollata di spalle: – Eh, ormai…potevi dirmelo prima che mi facessi questi buchi -.
In quei giorni il suo fido braccio destro Peter non era del solito umore. Si aggirava tra le casse di amplificatori con lo sguardo basso e cupo. Ogni tanto lanciava qualche occhiata a J per vedere se lo notava, ma J faceva finta di niente. Non si è mai visto alcun parroco fermare qualcuno per strada e chiedere se, per caso, avesse bisogno di confessarsi. E così faceva lui. Se Maometto aveva bisogno di un po’ di conforto, avrebbe dovuto scalare la montagna.
E così Peter fece.

P: – Hey J, what’s up? -.
J: – Ti prego dimmi che non sono ancora affari di cuore -.

Peter era un bravo ragazzo, forse troppo bravo, ma avventato. Si innamorava di tutto e soffriva la classica invidia del non artista. Non è facile la vita dei roadie. Orari impossibili, turni massacranti e nelle poche pause dal lavoro, cercare di raccattare qualche scarto d’artista. J non aveva di questi problemi. Un po’ perché il suo animo era equilibrato, ed un altro bel po’ perché, a dispetto dell’età, pareva ancora un giovincello. Ma Peter, pur portando i capelli lunghi, non possedeva lo stesso fascino. Una chierica di capelli radi stava affiorando pian piano sulla nuca e di lì a poco, J ne era convinto, gli avrebbe chiesto di porvi rimedio.

P: – J io non riesco a capire come tu faccia. A tenerti una donna, intendo. Come fai, viaggiando sempre, a sapere che non ti sta tradendo proprio ora? -.
J: – Semplice, Peter. Io non ho una donna, ma lascia che ti risponda con questa parabola-.

” Paolo viveva una relazione a distanza con il suo diletto Marco. Il loro amore era ostacolato non solo dal diverso lavoro, ma anche dalle diverse inclinazioni personali. Paolo era un solitario. Non uno di quelli raminghi che vanno a pesca di notte, o semplicemente a pesca. Bensì una persona che sfruttava i momenti di socialità con parsimonia e solo con selezionatissimi amici. Marco, invece, era una persona più aperta, ricca di passioni ed interessi. Queste passioni lo portavano a frequentare diversi luoghi e conoscere diverse persone, di ogni estrazione sociale. Marco amava profondamente Paolo, e di conseguenza non riusciva a capacitarsi del fatto che Paolo non si fidasse di lui. Marco credeva di essere molto intuitivo ed empatico, ma nel suo atteggiamento troneggiava una sorta di arroganza che era nient’altro che il riflesso di se stesso. Marco credeva, a suo ben vedere, che provare (leggi: fare) qualcosa, fosse sinonimo di viverla. E che solo vivere questi affetti-effetti pienamente lo rendesse non solo libero ma, cosa più importante, vero. Paolo era più anziano e di conseguenza più saggio. Era un riflessivo. Una persona che teorizzava, elaborava per poi passare ad altro. Con altro intendo una superiore nozione di conoscenza e quindi di verità. Ed in virtù di questa sua propensione a scandagliare le proprie e le altrui emozioni, si considerava una persona triste. Una volta era anche decadente, ma l’amore aveva risvegliato in lui un desiderio di riscatto, sicché la tristezza si era tramutata in disincanto e la decadenza in rinascita. Marco era certo che l’astio che Paolo spesso faceva trapelare nel giudicare in maniera così perentoria le sue attività fosse un misto di spocchia, gelosia ed invidia. Più di una volta affrontarono il discorso. E per quanto Paolo si sperticasse a dire che non era nulla di tutto questo, Marco era sempre più convinto che la fonte del disagio di Paolo riguardasse la fiducia. Man mano che questa credenza si consolidò nella mente di Marco, il tentativo di comprendere cedette terreno all’insofferenza. Paolo soffriva a causa di questa situazione. Non riusciva a dare ordine ai suoi pensieri quando affrontavano l’argomento e le sue ragioni apparivano sempre monche al cospetto dell’anelito di libertà del compagno. Marco pativa della stessa sofferenza, ma si ostinava a non ascoltarla e men che meno a comprenderla. Fu così che un giorno, quando Paolo attendeva in stazione, con cuore trepidante, il treno che avrebbe condotto Marco da lui per il fine settimana, d’un tratto si sentì come liberato, come se una cortina gli si fosse appena diradata innanzi agli occhi della mente. Si girò e se ne andò per sempre. Marco cercò disperatamente di rintracciarlo, di parlargli, di convincerlo ma ottenne solo un biglietto con questa frase: La verità è che non c’è alcuna verità. “

P: – E cosa starebbe a significare questa parabola, J? –
J: – Che la verità non può essere raccontata, Peter. Che per quanto una persona possa sforzarsi di essere onesta, il suo sarà semplicemente un racconto imbellettato e approntato ad uno scopo preciso. E la verità non ha uno scopo, esiste in sé, ma gli uomini la utilizzano per convincere. Ed è lo stupro peggiore che si possa compiere. Potrai essere convinto fino all’ossessione che la tua lei non ti stia tradendo, potrai anche infilare tutte e due le mani nel fuoco per lei, ma quello che riceverai in cambio della tua cieca fiducia, saranno soltanto ombre e sospetti e mezze verità e fatti che accadono nella tua testa. Non saprai mai se lei si è fermata più del solito a fumare una sigaretta con qualcuno. Non saprai mai chi l’ha accompagnata a casa. Non saprai mai cosa cela il suo sguardo quando non ci sei e quale desiderio di cupidigia risvegli quello sguardo che non conosci nel prossimo. La verità non è analitica. Non può essere trasmessa solo sulla base dei fatti, perché i fatti si scordano di rivelare la loro natura. Una natura silente da sottobosco, dove accade tutto, senza che questo tutto venga menzionato.
P: – E cosa dovrei fare secondo te? -.
J: – Paolo se ne è andato, ma tu puoi rimanere, se vuoi. Lo scarto tra fidarsi e non fidarsi è solo mentale. Perché, in ogni caso, non saprai mai ciò che succede dietro alle tue spalle. Se ti fidi vivrai una lunga storia, bella ed emozionante. Se non ti fidi vivrai nel sospetto. Mia nonna Anna, poco prima di morire, quando il lume della ragione si era affievolito fino renderle quasi impossibile esprimersi,  possedeva ancora il gusto del dubbio. E’ una cosa che sopravvive persino alla morte, perché si tramanda e si insinua nell’animo di chiunque. L’eredità di Satana. Quella che gli Slayer ignorano del tutto. Quello che ti consiglio è di raggiungere l’atarassia, ossia l’equidistanza da queste forme perverse di affezione. Solo in quella radura rischiarata dal tenue bagliore della tua conoscenza, potrai capire ciò che è meglio per te, trasmetterlo agli altri e fargli capire che qualunque cosa facciano, qualunque passione abbiano, qualunque desiderio di libertà, di imporsi, persino qualunque sentimento provino è solo una bugia estemporanea, incastonata in un quadro di menzogne che raccontano a se stessi, convincendosene, per aver l’illusione di vivere davvero. Ma sai cosa vuol dire veramente vivere, Peter? -.
P: – No, my lord, non lo so -.
J: – Immaginavo. Ma questa è un’altra storia -.
P: – Ciò che mi consigli, quindi, è di sbattermene i coglioni? Ho capito bene? -.
J: – Esatto, bro! Esatto -.

Happy Trails