Si fa un gran parlare negli ultimi tempi delle fantomatica Spanish Revolution, degli indignados e di tutto quel movimento di giovani, di ragazzi e di ragazze, che sull’onda emotiva delle rivolte arabe si è prodigata alla bene e meglio per importare anche nel vecchio continente il focolare della rivolta. Convinti che di rivoluzione si potesse effettivamente parlare.
Non si può negare che gli spagnoli, almeno in un primo tempo, abbiano saputo essere convincenti. Perché sono stati bravi a farci credere che la loro fosse la risposta più adeguata al malgoverno dei paesi europei e perché forse, in minima parte, è anche grazie a loro se dalle ultime amministrative il governo Zapatero ne è uscito fortemente indebolito.
Sarebbe valsa la pena, però, di capire sin dall’inizio quanto la “rivoluzione” spagnola fosse distante anni luce dalle sommosse arabe, perché il rischio è che scelte come queste possano non soltanto rivelarsi inefficaci, ma dannose, distogliendo l’attenzione dei più giovani dall’unica, reale ed efficace comunicazione con i sistemi di potere che è quella dei partiti, della militanza e del voto.
Ciò che gli spagnoli non hanno tenuto in considerazione o hanno finto di non cogliere è che le rivolte arabe nascono da un bisogno concreto di partecipazione attiva a quella politica, comunemente intesa, declinata e legittimata dalle forme di adesione sopraelencate. In altre parole, si potrebbe dire che i giovani tunisini non hanno scelto di mobilitarsi col solo fine di gridare il proprio sdegno e la propria insofferenza ad un regime dittatoriale e men che meno con l’intenzione di congedarsi dalla politica dei partiti. Al contrario, il loro scopo era avere accesso ad una democrazia che potesse garantire la libertà di voto e delegasse il potere a chiunque avesse ottenuto la maggioranza dei consensi sulla base di elezioni perfettamente trasparenti. Attualmente, a distanza di pochi mesi, le coscienze politiche dei giovani tunisini sono tante, almeno 63, come i partiti che si presenteranno alle prime votazioni libere di fine luglio.
In questo senso, la distanza con l’indignazione spagnola è netta e incontrovertibile.
Ciò che si propongono gli indignati è di mettere in atto una democrazia partecipativa in cui i cittadini possano spendersi in prima persona nella vita politica. E detta così parrebbe quasi una figata. Quello che però non tutti hanno colto (e proprio in questo risiede l’incoerenza del movimento) è che la Spanish Revolution si prefigge di agire al di fuori della politica, al di fuori delle istituzioni, al di fuori dei partiti e delle associazioni, come se da una piazza compattamente neutrale e super partes si potessero determinare le sorti di una Nazione, si potessero avanzare proposte di legge o fosse anche solo possibile scorgere lo spiraglio di una transizione. Insomma, sì al cambiamento, ma lontano dalle istituzioni; sì alla politica, ma affrancandosi dai partiti; sì alla rivoluzione, ma sfuggendo gli ideali. Un manifesto programmatico di raro e confuso spessore qualunquistico.
Certo, gli indignati qualcosa da spartire con i giovani arabi ce l’hanno: anche loro sono riusciti ad organizzarsi in modo capillare ed efficace attraverso l’ausilio dei social network.
Ma forse non è sufficiente ad inneggiare alla stagione delle rivolte spagnole.
Quello che è successo in Spagna è lontano dai fatti del mondo arabo, lontano anni luce. Se nei paesi della costa nord africana si è fatta la rivoluzione con il fine della democrazia, in Spagna si è scesi in piazza volendo chiarire i limiti dei propri rapporti con la democrazia elettiva. Nella plaza del Sol, a Madrid, per due settimane è stata sotto gli occhi di tutti l’indignazione di molti spagnoli. In tutta la Spagna si è esteso questo movimento degli indignaos, nato sul web. Un movimento apolitico e apartitico come dici tu. Tuttavia un movimento che di apolitico ha molto poco e in cui il riferimento hai partiti diventa obsoleto.
I ragazzi che sono stati in piazza, magari lavorando di giorno, presenziando le assemble ed i gruppi di lavoro nel pomeriggio, dormendo nel sacco a pelo la notte, hanno voluto stingersi al petto la democrazia ed i suoi ideali, hanno voluto dare un segnale alla classe dirigente. Certamente è stato un segnale debole rispetto ad una rivoluzione, ma un segnale forte rispetto all’apatia politica dei cittadini di mezz’ Europa. Certamente è successo nella penisola Iberica perchè in Spagna le cose vanno peggio che altrove. Il cittadino comune fa giustamente pesare le colpe delle sue disgrazie su un sistema che non ha saputo rispondere alla crisi occupazionale ed in cui i banchieri falliti hanno avuto comunque la buonuscita. Gli indignados si sentono traditi da un sistema che non è più vicino agli interessi della gente. La popolazione del web e della piazza non è solo critica. Tutt’altro. Oltre alle proposte sviluppate durante le assemble nelle settimane di occupazione del suolo pubblico restano delle conseguenze. La Spanish revolution era nata su internet ed ora, dopo aver fatto una bella passerella sotto i riflettori, torna al suo luogo di origine. Lascia dietro di se un’esperienza positiva e fatti concreti, come le riunioni di quartiere, in cui si affrontano problemi reali con una capillarità notevole. Quello spagnolo è un movimento che vuole riportare in primo piano il rapporto tra cittadino e politica, che schifa i partiti ormai votati agli interessi degli industriali e dei banchieri. Il movimento ha saputo sfruttare le potenzialità dei social network con estrema abilità e ha lasciato qualcosa dopo il passaggio sui media. Certo se tutto fosse andato bene, nessuna crisi, tutti al lavoro, tutti con la casa e la macchina, non ci sarebbe stato nessuno in piazza a lamentarsi. Su internet chi si si fosse scagliato contro le brutture del sistma politico sarebbe passato per il solito guastafeste. Tuttavia mi fa piacere constatare che almeno nei momenti di difficoltà lo spirito di protesta e di partecipazione, da qualche parte nel mondo, siano ancora intatti. Tutto questo per dire che: far passare ciò che succede in Spagna per una rivoluzione è certamente eccesivo; ciò che succede in Spagna continuerà sul web ed anche sul territorio, senza escludere nuove mobilitazioni; quello che è successo non è stato inutile ne si è mosso in una direzione errata poichè, in un paese in cui le istituzioni sono percepite come lontane, sono significativi atti di denuncia ed insieme propositivi da parte di una fetta non indifferente della popolazione.
Certo. Tuttavia mi sfugge ancora in che cosa consista, concretamente, il nuovo rapporto tra cittadini e politica di cui gli indignados si sono fatti portavoce. Qualsiasi manifestazione di protesta, seppur estesa come nel caso spagnolo, trova la propria unica risoluzione, che è una risoluzione approssimativa e inefficace, nella forza e nell’immediatezza dello slogan. Quando poi ad animare le proteste non sono gli ideali, ma le idee intese come solo e utile pretesto di legittimazione al dissenso, allora le speranze di successo vengono drasticamente depotenziate. Questo a dire che qualsiasi forma di indignazione che si prefigga l’obiettivo di agire al di fuori di un sistema politico è destinata a fallire, sfumando nell’oblio dell’indifferenza, a meno che le sue azioni non si manifestino in tutta la loro intransigenza, facendo violenza alle basi stesse del sistema politico, in un crescendo di pulsioni bellicose e di ferocia. In questo senso, è facile capire come solamente la LIBERTA’ e il DIRITTO di voto possano costituire l’unica alternativa realmente democratica, pacifica e risolutiva al malgoverno di un’intera classe dirigente, ben consapevoli dell’impossibilità di prescindere dalla pluralità e dalla conformazione di un sistema partitico. Trasferire le riunioni di quartiere nei circoli politici e nelle associazioni, dando spazio a volti nuovi e ad opinioni differenti, significherebbe creare i presupposti per un rinnovamento sostanziale delle moderne democrazie. Affidarle al chiassoso brulicame di una piazza caratterizzata dall’assenza di colori e di preferenze significa, invece, rassegnare le dimissioni. Dalla politica. E dalla realtà.
Nell’era dell’aforisma, di cosa ti sorprendi? Si è in tanti -troppi- e quello che si può urlare in maiuscolo non può che essere di poche parole. Slogan che se cadono al di fuori di un sistema politico obsoleto hanno una speranza di sopravvivenza. Secondo me è l’esatto contrario. La classe dirigente politica è marcia e iniqua; e soprattutto fatta di vecchi. Moriranno, si spera presto, e resteremo noi. E cosa dovremmo fare? Non credo che ci spetti continuare sulla loro linea, galvanizzare lo Stato che come istituzione nel 2011 non ha semplicemente più senso. Se dobbiamo rivendicare i nostri diritti presso un sistema che ha il compito di assicurarceli, va da se che è il sistema stesso a non avere più ragion d’essere. E’ arrivato il momento di andare OLTRE, e prima lo si afferra tutti, meglio è. Non si può lavorare tutta la vita per mantenere un classe dirigente pappona, struggendoci e agognando cose delle quali non abbiamo bisogno. C’è qualcosa di sbagliato agli albori.
Spiacente, ma sono d’accordo con la tua tesi “antistatalistica”: non riesco a capire cioè, come si possa sostenere che lo stato sia un’istituzione obsoleta, superata e non più necessaria. In particolare trovo puerile e poco lungimirante il teorema per il quale “ se la gente si riunisce nelle piazze per protestare contro i provvedimenti del governo in carica, allora lo stato ha necessariamente fallito il suo obbiettivo”; i governanti non sono il padreterno, non hanno il dono dell’onniscienza e quindi possono anche promulgare ( vuoi per incapacità, malafede o altro) leggi inefficaci e, perché no, inique. È quindi un diritto di ogni cittadino protestare contro provvedimenti da lui ritenuti ingiusti, lo stato avrebbe fallito se, a proteste pacifiche, rispondesse inviando Bava Beccaris a cannoneggiare la folla. Il fatto che la classe politica italiana sia “ vecchia”, incompetente, tendenzialmente corrotta o corruttibile, non segna il fallimento dello stato come idea, concetto o istituzione; l’idea del Leviatano è una mera utopia, una pura speculazione filosofica e il sistema si riforma in due modi: dall’interno o con le bombe, non certo lanciando slogan populistici da quattro soldi. L’astatalità creerebbe una situazione di anarchia che sarebbe deleteria, poiché portatrice dell’assenza di qualsiasi legge che non fosse la volontà del singolo. E visto che, a detta del suo stesso autore, lo stato del “buon selvaggio”, è una condizione storica mai verificatasi, si può facilmente intuire cosa succederebbe nel malaugurato caso in cui l’istituzione statale venisse a mancare. Lo stato non è una sovrastruttura, lo stato è LA struttura.
Le proposte degli indignados non possono cadere all’interno della politica ufficiale. Le giuste lamentele non possono essere accolte da nessun partito nell’era della moderazione vincente o dell’obiquità. Te lo vedi Bersani a scagliarsi contro i banchieri? D’alema che sbraita per le mosse poco di sinistra della sinistra? Renzi che se la prende con confindustria? Per la lega Roma è ladrona e bisogna fare la rivoluzione, ed i fucili sono caldi. Però loro sono sulla sedia, a Roma, e non si staccano più. Sono invischiati da vent’anni in un gioco politico in cui mediano tra una popolazione di zotici manipolabili e gli interessi di altri politici. Il solco tra le istituzioni ed il cittadino c’è. Non neghiamolo. Ormai molti sindacati stanno più dalla parte degli industriali che da quella dei lavoratori. I partiti possono ancora rispondere agli interessi reali dei cittadini o non possono più staccarsi dalle lobby bancarie, industriali, finanziere, economiche?
Forse che per garantire il servizio sanitario, l’istruzione pubblica, un posto di lavoro, la viabilità stradale ed i servizi di sicurezza si debba proteggere all’infinito gli interessi di pochi? Non è una domanda a cui so dare risposta. Certo ho tendenze cospirazioniste, ma in mancanza di prove evito giudizi certi. Pongo solo domande.
Non so se questi siano stati anche i problemi in Spagna. Mi limito ad “esempi” italiani perchè sono quelli di cui ho conoscenza diretta. In Spagna c’è stata una reazione alla distanza. Una reazione che continua sul web ed in forma, lamento ammetterlo, molto minore sul territorio. La reazione non riavvicina il cittadino alla politica ufficiale, quella dei partiti con i loro vari sponsor. Riavvicina il cittadino ad una forma alternativa di partecipazione e di difesa dei propri interessi. Quando i suoi rappresentanti non lo difendono più, prova a difendersi da solo, come può. In un’epoca in cui le potenzialità patecipative della rete non sono ancora sfruttate al massimo dai canali politici tradizionali è la cittadinanza a valorizzare questo sistema di comunicazione. Consegueze a breve termine: nessuna. Conseguenze a lungo termine: nessuno lo sa. A me, che resto sempre un pò bambino, piace pensare che da qualche parte, forse, ci siano delle basi partecipative ed ideologiche per un’ulteriore evoluzione dello stato di diritto. Legare l’azione politica del cittadino ai partiti significa limitare la possibilità di sopravvivere nel tempo di un sistema, quello delle democrazie di diritto, che è sopravvissuto perchè ha saputo evolversi ed integrare anche i suoi opposti.