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Archive for the ‘Sufismi’ Category

In quel tempo J lavorava come drum tech per il tour degli Slayer. Si godeva il soundcheck dal retro palco e non capiva come dei testi così demenziali potessero piacere ai giovani. Come ogni forma di culto, per quanto profano, aveva assunto i contorni della commedia farsesca. Oppure erano solo forme nostalgiche di una pigrizia mentale.
Il lavoro di fatica l’aveva sempre rilassato, fin da quando suo padre lo costringeva a piallare pezzi di legno nella sua bottega. Per un certo periodo aveva persino provato a fare la rockstar, ma le lusinghe messianiche dell’avant-spettacolo gli erano venute a noia immediatamente e, dopo aver sciolto il gruppo, inscenò una classicissima overdose. Aveva sempre amato il retrogusto romantico della musica rock, per quanto stucchevole potesse sembrare dopo la morte di Kurt ed il circo massimo delle raccolte di b-sides e greatest hits. La morte è sempre un toccasana per le vendite. Pensate solo a quanto si riesce a lucrare sui gadget della croce a distanza di duemila anni. Aveva persino consigliato al bro Pio di scegliersi qualcosa di più commerciale che non le stimmate, ma Pio da quell’orecchio non ci sentiva. Allora provò nell’altro, ma Pio rispose con una scrollata di spalle: – Eh, ormai…potevi dirmelo prima che mi facessi questi buchi -.
In quei giorni il suo fido braccio destro Peter non era del solito umore. Si aggirava tra le casse di amplificatori con lo sguardo basso e cupo. Ogni tanto lanciava qualche occhiata a J per vedere se lo notava, ma J faceva finta di niente. Non si è mai visto alcun parroco fermare qualcuno per strada e chiedere se, per caso, avesse bisogno di confessarsi. E così faceva lui. Se Maometto aveva bisogno di un po’ di conforto, avrebbe dovuto scalare la montagna.
E così Peter fece.

P: – Hey J, what’s up? -.
J: – Ti prego dimmi che non sono ancora affari di cuore -.

Peter era un bravo ragazzo, forse troppo bravo, ma avventato. Si innamorava di tutto e soffriva la classica invidia del non artista. Non è facile la vita dei roadie. Orari impossibili, turni massacranti e nelle poche pause dal lavoro, cercare di raccattare qualche scarto d’artista. J non aveva di questi problemi. Un po’ perché il suo animo era equilibrato, ed un altro bel po’ perché, a dispetto dell’età, pareva ancora un giovincello. Ma Peter, pur portando i capelli lunghi, non possedeva lo stesso fascino. Una chierica di capelli radi stava affiorando pian piano sulla nuca e di lì a poco, J ne era convinto, gli avrebbe chiesto di porvi rimedio.

P: – J io non riesco a capire come tu faccia. A tenerti una donna, intendo. Come fai, viaggiando sempre, a sapere che non ti sta tradendo proprio ora? -.
J: – Semplice, Peter. Io non ho una donna, ma lascia che ti risponda con questa parabola-.

” Paolo viveva una relazione a distanza con il suo diletto Marco. Il loro amore era ostacolato non solo dal diverso lavoro, ma anche dalle diverse inclinazioni personali. Paolo era un solitario. Non uno di quelli raminghi che vanno a pesca di notte, o semplicemente a pesca. Bensì una persona che sfruttava i momenti di socialità con parsimonia e solo con selezionatissimi amici. Marco, invece, era una persona più aperta, ricca di passioni ed interessi. Queste passioni lo portavano a frequentare diversi luoghi e conoscere diverse persone, di ogni estrazione sociale. Marco amava profondamente Paolo, e di conseguenza non riusciva a capacitarsi del fatto che Paolo non si fidasse di lui. Marco credeva di essere molto intuitivo ed empatico, ma nel suo atteggiamento troneggiava una sorta di arroganza che era nient’altro che il riflesso di se stesso. Marco credeva, a suo ben vedere, che provare (leggi: fare) qualcosa, fosse sinonimo di viverla. E che solo vivere questi affetti-effetti pienamente lo rendesse non solo libero ma, cosa più importante, vero. Paolo era più anziano e di conseguenza più saggio. Era un riflessivo. Una persona che teorizzava, elaborava per poi passare ad altro. Con altro intendo una superiore nozione di conoscenza e quindi di verità. Ed in virtù di questa sua propensione a scandagliare le proprie e le altrui emozioni, si considerava una persona triste. Una volta era anche decadente, ma l’amore aveva risvegliato in lui un desiderio di riscatto, sicché la tristezza si era tramutata in disincanto e la decadenza in rinascita. Marco era certo che l’astio che Paolo spesso faceva trapelare nel giudicare in maniera così perentoria le sue attività fosse un misto di spocchia, gelosia ed invidia. Più di una volta affrontarono il discorso. E per quanto Paolo si sperticasse a dire che non era nulla di tutto questo, Marco era sempre più convinto che la fonte del disagio di Paolo riguardasse la fiducia. Man mano che questa credenza si consolidò nella mente di Marco, il tentativo di comprendere cedette terreno all’insofferenza. Paolo soffriva a causa di questa situazione. Non riusciva a dare ordine ai suoi pensieri quando affrontavano l’argomento e le sue ragioni apparivano sempre monche al cospetto dell’anelito di libertà del compagno. Marco pativa della stessa sofferenza, ma si ostinava a non ascoltarla e men che meno a comprenderla. Fu così che un giorno, quando Paolo attendeva in stazione, con cuore trepidante, il treno che avrebbe condotto Marco da lui per il fine settimana, d’un tratto si sentì come liberato, come se una cortina gli si fosse appena diradata innanzi agli occhi della mente. Si girò e se ne andò per sempre. Marco cercò disperatamente di rintracciarlo, di parlargli, di convincerlo ma ottenne solo un biglietto con questa frase: La verità è che non c’è alcuna verità. “

P: – E cosa starebbe a significare questa parabola, J? –
J: – Che la verità non può essere raccontata, Peter. Che per quanto una persona possa sforzarsi di essere onesta, il suo sarà semplicemente un racconto imbellettato e approntato ad uno scopo preciso. E la verità non ha uno scopo, esiste in sé, ma gli uomini la utilizzano per convincere. Ed è lo stupro peggiore che si possa compiere. Potrai essere convinto fino all’ossessione che la tua lei non ti stia tradendo, potrai anche infilare tutte e due le mani nel fuoco per lei, ma quello che riceverai in cambio della tua cieca fiducia, saranno soltanto ombre e sospetti e mezze verità e fatti che accadono nella tua testa. Non saprai mai se lei si è fermata più del solito a fumare una sigaretta con qualcuno. Non saprai mai chi l’ha accompagnata a casa. Non saprai mai cosa cela il suo sguardo quando non ci sei e quale desiderio di cupidigia risvegli quello sguardo che non conosci nel prossimo. La verità non è analitica. Non può essere trasmessa solo sulla base dei fatti, perché i fatti si scordano di rivelare la loro natura. Una natura silente da sottobosco, dove accade tutto, senza che questo tutto venga menzionato.
P: – E cosa dovrei fare secondo te? -.
J: – Paolo se ne è andato, ma tu puoi rimanere, se vuoi. Lo scarto tra fidarsi e non fidarsi è solo mentale. Perché, in ogni caso, non saprai mai ciò che succede dietro alle tue spalle. Se ti fidi vivrai una lunga storia, bella ed emozionante. Se non ti fidi vivrai nel sospetto. Mia nonna Anna, poco prima di morire, quando il lume della ragione si era affievolito fino renderle quasi impossibile esprimersi,  possedeva ancora il gusto del dubbio. E’ una cosa che sopravvive persino alla morte, perché si tramanda e si insinua nell’animo di chiunque. L’eredità di Satana. Quella che gli Slayer ignorano del tutto. Quello che ti consiglio è di raggiungere l’atarassia, ossia l’equidistanza da queste forme perverse di affezione. Solo in quella radura rischiarata dal tenue bagliore della tua conoscenza, potrai capire ciò che è meglio per te, trasmetterlo agli altri e fargli capire che qualunque cosa facciano, qualunque passione abbiano, qualunque desiderio di libertà, di imporsi, persino qualunque sentimento provino è solo una bugia estemporanea, incastonata in un quadro di menzogne che raccontano a se stessi, convincendosene, per aver l’illusione di vivere davvero. Ma sai cosa vuol dire veramente vivere, Peter? -.
P: – No, my lord, non lo so -.
J: – Immaginavo. Ma questa è un’altra storia -.
P: – Ciò che mi consigli, quindi, è di sbattermene i coglioni? Ho capito bene? -.
J: – Esatto, bro! Esatto -.

Happy Trails

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M Theory

Ieri su Repubblica (mercoledì 6 aprile) venivano proposti alcuni stralci del nuovo libro di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow che ci spiegano, in pills, la nuova teoria dell’universo: M theory. Per chi non lo sapesse Stephen Hawking non è quello dei romanzi horror, anche se, come gradimento personale, l’avrei sperato. Stephen Hawking è passato alla storia per essere il paralitico più intelligente del mondo. Ora, non ho niente contro i paralitici e non ho niente contro i sapientoni. E non ho niente neppure contro quelli che parlano con la voce robotica da un computer e che spostano la wheelchair soffiando in una cannuccia, ma questo tizio, tra le tante cose intelligenti che ha detto, avrebbe proferito queste esatte parole: la filosofia è morta. Lasciamo da parte le beghe personali legate al fatto che sono uno studente di filosofia; che sono convinto che un ritorno alla filosofia sia necessario per sbrogliare le matasse che la psicanalisi ha solo aggrovigliato; che Platone ( e lo stuolo di Neoplatonici), siano arrivati a comprendere l’essenza del cosmo e dell’uomo come nessuno aveva fatto prima e come nessuno fece dopo, senza l’ausilio del meccanicismo. Bene.

La M Theory, se non erro, parla di undici dimensioni e qualcosa come infiniti universi paralleli. Ma solo in questa, a quanto pare, Stephen Hawking è handicappato. In un’altra è candidato alle olimpiadi di Londra 2012 per il salto in alto. In un’altra ancora è un gatto, oppure Dio. Non ho le basi scientifiche per negare, differire o persino argomentare questa scoperta. So solo che la realtà che vediamo è questa e per una sorta di disagio etico, non mi metterei a ballare la tarantella davanti a Stephen Hawking. Come sarebbe giusto, siccome è l’uomo più intelligente che abbia mai provato a fare un freno mano con la sedia a rotelle, che mi dicesse prima dell’iscrizione alla facoltà di filosofia, che la filosofia è morta. E che invece dovrei mettermi a studiare una teoria con la quale non posso né cambiare, né migliorare questo giro di giostra. Senza contare che parlarmi di undici dimensioni e non spiegarmi com’è che la bandiera americana sulla luna sventolava in assenza di atmosfera, mi pare un controsenso. Ditemi che era un gayser, il ventilatore della nasa, il soffio di Edwin Aldrin, il secondo uomo sulla luna, a cui nessuno chiede niente.

Se anche la filosofia ha smarrito quella pan-comprensione del tutto e si è limitata ad una teorizzazione dell’attuale società, pretendendo, per assodati meriti storici, di centrare il proprio obiettivo nella sfera sublunare, non per questo la fisica può arrogarsi il diritto di firmarne l’epitaffio. Perché innanzitutto ricordo che niente filosofia, niente fisica, almeno in questa dimensione. E poi perché la scienza soffre ormai di quel piccolo difetto auto-inflitto che prende il nome di iper-settorializzazione. Con Cartesio la geometria si è matematizzata e da quell’istante in poi il credo illuminista di rendere il sapere potenzialmente aperto a tutti, ha smarrito la strada. Un libro per principianti sulla M Theory potrebbe anche illuminarci, a grandi linee, su cosa sia il Tutto o da dove venga. Ma non ci renderebbe mai in grado di dimostrarlo, se non matematicamente, e mai senza l’ausilio di competenze adeguate, fuori dalle possibilità di molti, se non della stragrande maggioranza dell’umanità.

E sta tutta qui la differenza mr. Wheelchair. La filosofia è in grado di opporre diverse teorie per spiegare il cosmo, non negando la veridicità di nessuna. Anzi, sta proprio nell’accumulazione di questo sapere, delle prove empiriche, dialettiche, logiche la vera forza della filosofia. Per questo si chiama amore per la sapienza. Perché è nella conoscenza, non necessariamente cronologica, che sta l’eredità dell’uomo. Ed è all’uomo, non alla luna che si rivolge la filosofia. Non il cosmo in quanto cosmo, ma il cosmo in funzione dell’uomo. E questa Verità ad personam, questa licenza poetica in una materia così rigorosa, ci permette d’indossare il vestito che preferiamo, risultando felici.
Per questo non devo essere né un genio della matematica, né frustrarmi l’esistenza sommando o sottraendo dati aleatori. Mi basta porre il reale al centro di ogni esistenza. E nel farlo comprendere che i nostri cinque sensi sono sufficienti a realizzare quanto siano inadeguati nei confronti del Tutto. Senza astrarmi ma coinvolgendomi nel Tutto. Forse è questa la via affinché non si realizzi l’omicidio che Hawking e compagni hanno in mente: umanizzare la scienza. In tempi in cui ognuno di noi ha una teoria.

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In ogni indagine filosofica che si rispetti andrebbe specificato aprioristicamente qual è l’orizzonte che l’oggetto filosofico intende scandagliare e perseguire. Innanzi ad una domanda apparentemente semplice come “che cos’è questo blog?”, mi si sono presentati dei “dilemmi a cascata”, ben più a monte del quesito di cui sopra. Primo tra i quali: perché un blog?
Proprio perché questo esperimento è una concertazione tra più menti e, di conseguenza, tra più coppie di mani, ognuno di noi esprime le incertezze, le credenze, i sofismi e le teorie con le quali sente di avere più affinità ed attitudine. Nella più totale e piena libertà espressiva. Nel caos ideologico che potrebbe generarsi, l’unica vera fonte di giudizio ontologico (ovvero sull’essenza) potrebbe derivare da voi tutti che, con coscienza o meno, vi approccerete all’ozio con noi. Ma credo stia proprio nel de-oggettivare un obiettivo comune, la portata della grandezza filosofica de ‘Lo spaccio’.
Nell’intuizione che ha fatto balenare l’idea, ci siamo accorti che – oltre alla volontà comune di accentare il nostro polo universitario, con una proposta filosofico-letteraria, in aperta controtendenza alle dinamiche scientifico-economico-giuridiche che hanno spinto la cultura a questo stato letargico – il pensare comune ci sta portando alle soglie di una coscienza comune. E se questo è avvenuto tra di noi, è possibile che si permuti, in qualche modo, anche all’esterno.

Prendendo spunto dalla lettura dell’opus magnum di Peter Sloterdijk, filosofo tedesco postmodernista, ‘Sfere’, colgo l’occasione per precisare alcuni punti o appunti che è giusto tenere a mente.

1) Lo spostamento della cultura da luoghi fisici a luoghi virtuali, riflette lo stesso scarto che l’individuo postmoderno è portato a compiere, per mantenere un cantuccio vitale non afflitto dall’ipercineticità dello spazio esterno mondano.

2) Con “spazio esterno mondano” intendo tutte le attività che l’uomo può o deve compiere, persino nell’ambito dell’intimità più duale, a causa o concausa dell’irruzione del capitale. Il capitale ha permesso a grandi sacche di umanità, il raggiungimento e il consolidamento di un benessere generalizzato. Come è stato dimostrato da uno dei più famosi antropologi del secolo scorso, Claude Levy Strauss, il dato più sensazionale, non solo del XX secolo, ma di tutta la storia dell’umanità, è stata l’impennata demografica in poco più di un secolo.

3) Ma a quale prezzo? Se è vero che il welfare è il termostato dell’habitat in cui nasciamo, la temperatura raggiunta da questa “serra globale” ha desertificato il campo d’indagine metafisica o, se non crediamo ai fantasmi, soggettiva. Le scienze si sono poste come parziale risposta frammentando, non solo l’indagine umana, ma frantumando gli spazi vitali entro cui un essere complesso e composito come l’uomo può muoversi; grazie ad una tecnocrazia involutiva. La religione, incarnata nei potentati monoteistici ancora resistenti all’ondata di scettico ateismo, non ha saputo rinnovarsi e, questa la loro colpa più grave, non ha saputo smarcare le proprie posizioni a fronte della complessità di risposte che gli individui esigono o ricercano. Il potere politico ha stretto un sodalizio inscindibile con l’economia, ritenendo a torto o a ragione, che il welfare determinato dal capitale, potesse sostituirsi al mandato di legge naturale e civile che abbiamo loro consegnato nella notte dell’uomo. Le leggi attuali, per quanto mi riguarda, sono soltanto un modo coercitivo per mantenere lo stato di cose esattamente com’è. Alla faccia dell’anacronismo o di chi la può pensare diversamente su molte questioni. Alla faccia della democrazia, quindi.

4) Tutto ciò, naturalmente, all’atto della nascita non ci viene notificato. Per loro “accettare un lavoro”, nemmeno ricercarlo, è una prassi collaborativa consolidata. E siccome la verità, dagli inizi della modernità ad oggi, coincide con la verità (parzialità, prego) della scienza, coloro che intraprendono un’attività umanistica, vengono ostracizzati, derisi, ghettizzati. Salvo poi, per comodità, venir riformati con logiche del tutto estranee. “La cieca fede nella scienza”, che ho sempre interpretato come un capzioso rifiuto di tutto ciò che non seguisse leggi empiriche, meccaniche e rigorose, altro non è che la limitatezza nel giudicare se stessi.

5) E soprattutto nel giudicare gli spazi che ci appartengono. Ovunque ci muoviamo, all’interno di questa società, troviamo soltanto ambiti che si intersecano, ma che non possediamo. Nonostante l’illusione della proprietà privata e dei beni materiali. Nonostante tutto sia corredato di pronomi possessivi.

Bene, questo blog non è il nostro blog. Questo è semplicemente [lo spaccio]. Posto così, tra parentesi. Un punto di slancio oltre la serra globale che, ahinoi, non occlude lo sguardo, ma immobilizza i tentativi. [Lo spaccio] sarà quel luogo virtuale, quindi creato secondo le regole dell’era elettronica, che dovrà materializzarsi ovunque. Ecco perché è nostro preciso compito, nonché dovere, fare in modo che la lettura e la comprensione, siano innervate da qualcosa di più che un mero opinionismo.

6) Cercheremo di ricreare, artificiosamente, uno spazio di inclusione, in piena e ostile antitesi con l’esclusivismo e il relativismo imperante. Mi piacerebbe poterla paragonare ad un’oasi per inetti. E se nel farlo distruggeremo questa “babele orizzontale”, questo intersecarsi di punti e di rette, allora avrà sortito gli effetti sperati nei loro creatori. Che più che creatori sono semplici esecutori del disagio.

E’ un po’ come chiedere ‘scusa’. Una volta ci si doveva genuflettere, curvarsi per ottenere il perdono. Ora basta ripercorrere a ritroso un percorso di menzogne, opinioni, falsificazioni, fino ad aggirare l’ostacolo, con l’assoluta e arrogante presunzione che un pareggio sia sempre meglio di una sconfitta.

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La buona novella

Mi sono sempre  chiesto se un filosofo potesse essere anche qualcos’altro. E per potermi fornire una risposta, basterebbe affidarsi alla storia. I filosofi sono soprattutto qualcos’altro. Con buona pace di tutti gli scienziati che oggi fondano le loro credenze sopra una sorta di razionalismo formulare. Ciò che credono di conoscere non è altro che lo scontro-incontro con la metafisica più antica ed esoterica. Non è l’evoluzione umana ad aver aperto alle scoperte, ma l’evoluzione del pensiero. Cos’altro sarebbe il chimico se non un’alchimista rigoroso? Potranno cambiare gli obiettivi e le tecnologie, ma è l’evoluzione delle idee a nobilitare la scienza. E l’iper-settorializzazione non può nascondere gli antenati comuni, per quanto di umili origini. Rinnegare i padri della scienza sarebbe l’ennesimo scippo storico a cui, saltuariamente, siamo costretti ad assistere. Quando mi chiedono, per strada, “perché filosofia?”, rispondo, “perché è da lì che vieni”. E l’artificiosa spaccatura tra tutto ciò che è percepibile attraverso i cinque sensi e tutto ciò che è oltre questa umana capacità di discernere, ha creato quelle metafore che chiamiamo scienze naturali.

Una metafora è un trasferimento di significato, ma in semantica indica anche una parola che si arricchisce di nuovi significati per estensione. Come ad esempio la vite (utensile) che si chiama così per via della forma della vite (pianta). Appare chiaro che se fu la filosofia il fulcro delle scienze naturali, declinarne il sostantivo in chimica, fisica, biologia, metafisica, etc. non altera il nucleo concettuale di partenza. Non comprendere ciò, significa non comprendere ciò che si sta studiando\sperimentando. Non conoscere il profondo legame tra empirismo e metafisica, significa mancare grossolanamente ogni ” giuramento ” scientifico. Sarebbe come costruire una piramide partendo dalla punta.

A questo punto è lecito chiedersi che tipo di filosofo io sia. E, di conseguenza, quale delle tante espressioni possibili possa prendere il mio ego all’interno di questo blog. Chiedersi che tipo di filosofo io voglia essere è un po’ come chiedersi che tipo di persona io voglia essere. Perché la filosofia è soprattutto modus vivendi. Vorrei scansare, come paletti del supergigante, ogni noioso elenco di tutti gli -ismi di cui non sono affetto, a differenza di voi. E vorrei concentrarmi sulla ripida scalata che mi ha portato a sentirmi un neo-cinico, espressione edulcorata del cinismo d’antica fondazione.

Pare che Diogene di Sinope stesse come al suo solito bighellonando per le vie di Atene. Gli si parò davanti Alessandro Magno, che, per metterlo alla prova gli disse:<< Cosa vuoi che io faccia per te?>>. Il cinico rispose: << Vorrei che si spostasse perché mi sta facendo ombra >>. La totale estraneità ai piaceri e ai desideri degli uomini si univa, nella figura di Diogene, ad una critica pubblica nei confronti della società che riteneva regressiva ed incapace di accontentarsi. La verità come la felicità erano puro dominio di chi non si assoggettava alle regole sociali. Chi se ne restava in disparte. Quelli che oggi vengono chiamati, impropriamente, o tossicodipendenti o outsiders.

Oggi però è infinitamente difficile, se non impossibile, slegarsi dal contesto sociale che ci accomuna, sin dal momento della nascita, come un battesimo laico non desiderabile. Spintonati da un luogo sicuro e caldo come l’utero materno, veniamo catapultati in un mondo freddo ed inospitale che come taglia sul nostro futuro fa pendere il cappio del lavoro. Liberarsi, mentalmente, da questo fardello è stato per me un compito arduo. Ed una volta compreso che si può vivere fottendo il prossimo, perché il prossimo è nettamente più idiota, l’intero decorso della vostra esistenza vi sembrerà meno martirizzante. Questa società ha creato sacche di benessere generalizzato, esecrando ogni strumento culturale. La logica del profitto e del guadagno ha soppiantato o contaminato ogni forma di potere superiore, declinandosi al verbo del tornaconto personale. Per farlo si sono serviti dello stesso linguaggio umano, svuotandolo di ogni significato, relativizzando ogni verità e riducendo lo scontro non tanto ad una battaglia ideologica ma ad una rissa tra opinionisti.
Cresciuto in un tale contesto mi sono chiesto se davvero, come persona e come filosofo, abbia voglia di soggiacere a queste regole. La risposta l’ha già fornita il più grande neocinico dell’era moderna. Che non era propriamente un filosofo, bensì un comico.

Here’s the thing.

http://www.youtube.com/watch?v=OBbHfI8jfmg (part 1)
http://www.youtube.com/watch?v=OBbHfI8jfmg (part 2)
http://www.youtube.com/watch?v=VZ7x1_m12SY&feature=related (part 3)
http://www.youtube.com/watch?v=Nioy8AhYweY&feature=related (part 4)
http://www.youtube.com/watch?v=7WsnpTcXm5M&feature=related (part 5)
http://www.youtube.com/watch?v=Maq2GPq-k98&feature=related (part 6)
http://www.youtube.com/watch?v=3e8pGG39hPM&feature=related (part 7)
http://www.youtube.com/watch?v=3e8pGG39hPM&feature=related (part 8)

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